Illustrazione in stile Studio Ghibli ispirata all’articolo dello Studio Legale Zampaolo sulla sentenza della Cassazione n. 257/2025: un giudice assorto nella lettura di una sentenza, in un’aula di tribunale dai toni caldi e sognanti, riflette sul confine tra legalità e giustizia. Sullo sfondo, una bilancia della giustizia e volumi di diritto penale evocano il tema delle pene accessorie e dell’interdizione dai pubblici uffici, mentre la luce soffusa sottolinea la delicatezza dell’applicazione retroattiva delle norme.

Indice

Pene accessorie e interdizione dai pubblici uffici: i confini di Cassazione n. 257/2025

La recentissima sentenza della Cassazione Penale, sezione sesta, n. 257/2025, deposito del 3 aprile 2025, chiarisce alcuni aspetti dell’applicazione delle pene accessorie e in particolare dell’interdizione dai pubblici uffici.

In particolare, essa afferma che costituisce pena accessoria illegale, in quanto inflitta al di fuori del paradigma normativo di cui all’art. 29 cod. pen., l’interdizione perpetua dai pubblici uffici disposta, ex art. 317-bis cod. pen., nei confronti del corruttore, per effetto di condanna per fatti commessi antecedentemente all’entrata in vigore della legge 9 gennaio 2019, n. 3. Ma cosa significa esattamente tutto ciò? Vediamolo insieme.

Pene accessorie e interdizione dai pubblici uffici: il caso concreto

La vicenda trattata dalla sentenza trae origine da una condanna per corruzione emessa dal Tribunale di Noia e confermata dalla Corte d’Appello di Napoli nei confronti di due imputati: un responsabile dell’ufficio dello stato civile del Comune di Somma Vesuviana e una referente di un’associazione che prestava assistenza per le pratiche di riconoscimento della cittadinanza in favore di cittadini brasiliani.

Gli imputati erano stati condannati per aver violato gli artt. 319 e 321 del codice penale, perché il pubblico ufficiale aveva omesso le dovute verifiche istruttorie in cambio di indebiti compensi.

Pene accessorie e interdizione dai pubblici uffici: i principi affermati dalla Suprema Corte

La Corte di Cassazione, nell’esaminare i ricorsi, ha fornito importanti precisazioni in tema di corruzione e pene accessorie. In particolare, ha ribadito che per l’accertamento del reato di corruzione propria è necessario dimostrare non solo la dazione indebita, ma anche la finalizzazione di tale erogazione all’impegno di un futuro comportamento contrario ai doveri d’ufficio ovvero alla remunerazione di un già attuato comportamento contrario da parte del soggetto munito di qualifica pubblicistica.

La Suprema Corte ha inoltre chiarito che costituiscono atti contrari ai doveri d’ufficio non soltanto quelli illeciti o illegittimi, ma anche quelli che, pur formalmente regolari, prescindono per consapevole volontà del pubblico ufficiale dall’osservanza di doveri istituzionali espressi in norme di qualsiasi livello, compresi quelli di correttezza e imparzialità.

la questione dell’applicazione retroattiva

Il punto più innovativo della decisione riguarda l’applicazione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici. La Corte ha rilevato che la legge 6 novembre 2012, n. 190, vigente al tempo dei fatti, aveva esteso l’ambito applicativo dell’art. 317-bis cod. pen. attraverso il riferimento ai reati di cui agli artt. 319 e 319-quater cod. pen., ma non conteneva alcun riferimento alle pene stabilite per il corruttore dall’art. 321 cod. pen.

La Corte ha quindi stabilito che la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, specificamente prevista dall’art. 317-bis cod. pen., non poteva trovare applicazione nei confronti del corruttore. Tale circostanza è significativamente confermata dal fatto che la legge 9 gennaio 2019, n. 3, ha modificato l’art. 317-bis cod. pen., prevedendone espressamente l’applicazione anche nel caso di condanna del corruttore ai sensi dell’art. 321 cod. pen.

gli effetti pratici della decisione di Cassazione n. 257/2025

La sentenza è stata quindi annullata senza rinvio limitatamente alla pena accessoria dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici applicata all’imputata, con rideterminazione della stessa in anni tre e mesi quattro, in applicazione dell’art. 29 cod. pen. 

Di sicuro, quindi, un importante precedente per tutti i casi analoghi in cui si debba valutare l’applicabilità retroattiva delle modifiche in tema di pene accessorie.

La decisione si inserisce nel solco di un orientamento garantista che impone un’interpretazione rigorosa del principio di legalità anche in materia di pene accessorie, escludendo applicazioni analogiche o retroattive in malam partem delle disposizioni che le prevedono.

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