Social network e atti persecutori: nuovi orientamenti giurisprudenziali

La recentissima sentenza della Corte di Cassazione n. 33986 del 6 settembre 2024 ha affrontato il tema della responsabilità penale per le condotte di pubblicazione di post minacciosi sui social network. La Corte ha ritenuto sussistente il reato di atti persecutori anche in situazioni in cui la vittima non è presente, con un proprio profilo social, sulla piattaforma. Questo caso mette in evidenza l’importanza di una corretta gestione dei contenuti pubblicati sui social, soprattutto quando questi possono essere percepiti come minacciosi da terze persone.

Il caso e la decisione della Corte

L’imputato aveva pubblicato due post minacciosi sulla propria bacheca Facebook, rivolti a una persona che non aveva un account sulla piattaforma.

Nonostante l’assenza di un profilo social riferibile alla persona offesa, la Suprema Corte ha stabilito che la pubblicazione fosse sufficiente a integrare il reato di atti persecutori, perché i post erano visibili a terzi legati alla vittima, i quali avrebbero poi riferito il contenuto alla persona offesa. L’imputato, perciò, era stato inizialmente condannato per atti persecutori dal Tribunale di Vercelli, con conferma in appello da parte della Corte d’Appello di Torino.

La difesa, nel proporre ricorso in Cassazione, ha sostenuto che l’assenza di accesso diretto da parte della vittima ai contenuti pubblicati avrebbe impedito lo stato di ansia o paura richiesto per configurare il reato.

Tuttavia, la Corte di Cassazione ha rigettato questa tesi, confermando la condanna e chiarendo che la consapevolezza che altri soggetti possano riferire il contenuto alla vittima è sufficiente per integrare il dolo richiesto dalla norma.

Reati di atti persecutori e social network

Occorre ricordare che l’art. 612 bis del codice penale, oggetto della decisione della Corte, prevede che il reato di atti persecutori si configuri quando vengono poste in essere condotte di minaccia o molestia reiterate, idonee a creare uno stato di ansia, paura, timore per l’incolumità propria o dei propri cari, o a compromettere la libertà della vittima costringendola a modificare le abitudini di vita.

Nel caso in esame, nonostante la persona offesa non fosse direttamente coinvolta sulla piattaforma, la pubblicazione dei post è stata considerata sufficiente a determinare uno degli effetti previsti dalla norma (cioè gli eventi di stato d’ansia, fondato timore per l’incolumità, o alterazione delle proprie abitudini di vita) in quanto le informazioni erano accessibili a terzi legati alla vittima.

La Corte ha sottolineato, sulla base di un orientamento già consolidato, che il dolo del reato di atti persecutori non richiede la preordinazione delle condotte, ma solo la consapevolezza che tali azioni possano provocare uno degli eventi alternativamente previsti dalla legge.

Questo implica che l’imputato, pur non volendo colpire direttamente la vittima, era consapevole che i propri post sarebbero stati visibili e riferibili alla persona offesa.

Considerazioni sulla responsabilità online

La sentenza offre un’importante riflessione sull’uso dei social media e sulle possibili conseguenze legali dei contenuti pubblicati. Anche in contesti dove non vi è un contatto diretto tra l’autore dei post e la vittima, le piattaforme social possono diventare uno strumento per perpetrare condotte persecutorie, se il contenuto è accessibile ad altri che possono riferirlo alla persona offesa.

Questa pronuncia invita nuovamente a una maggiore attenzione nell’uso dei social network, ricordando che le conseguenze delle proprie azioni online possono non essere limitate alla sola cerchia di “amici” o contatti, ma possono coinvolgere anche soggetti terzi, con possibili ripercussioni giuridiche.

Conclusioni: la Corte di Cassazione e il lato oscuro della comunicazione social

La sentenza n. 33986/2024 della Corte di Cassazione getta una luce cupa sull’uso dei social media: ciò che viene pubblicato, anche su una bacheca personale, può facilmente superare il confine del lecito e trasformarsi in un’azione giuridicamente rilevante. È sufficiente che qualcuno, terzo e apparentemente estraneo, possa riportare il contenuto del post alla vittima perché le parole usate assumano un peso ben diverso da quello inizialmente previsto.

In un mondo dove ogni messaggio può sfuggire al controllo dell’autore e assumere proporzioni imprevedibili, i social network si rivelano essere uno strumento tanto potente quanto pericoloso. La libertà di espressione si deve bilanciare con le conseguenze di ciò che si inserisce sui social network, e la linea che separa un’azione irrilevante su internet da una condotta persecutoria può essere più sottile di quanto si possa immaginare.